Estremo commiato (1968)

Estremo commiato, pubblicato con il titolo Per Aldo Capitini in «Il Ponte», a. XXXIV, n. 11, Firenze, novembre 1968, poi con il titolo definitivo in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive; in W. Binni, La disperata tensione cit., e in W. Binni, Scritti politici 1934-1997 cit. È il discorso pronunciato il 21 ottobre 1968 al funerale di Capitini.

Estremo commiato

Queste inadeguate parole che io pronuncio a nome degli amici piú antichi e piú recenti che Aldo Capitini ebbe e ha, per la sua eccezionale disposizione verso gli altri, vorrebbero, piú che essere un saluto estremo e un motivato omaggio alla sua presenza nella nostra storia privata e generale, costituire solo un appoggio, per quanto esile e sproporzionato, ad una tensione di concentrazione di tutti quanti lo conobbero e lo amarono: tutti qui materialmente o idealmente raccolti in un intimo silenzio profondo che queste parole vorrebbero non spezzare ma accentuare, portandoci tutti a unirci a lui, nella nostra stessa intera unione con lui e in lui, unione cui egli ci ha sollecitato e ci sollecita con la sua vita, con le sue opere, con le sue possenti e geniali intuizioni.

Certo, in questo «nobile e virile silenzio» suggerito, come egli diceva, dalla morte di ogni essere umano, come potremmo facilmente bruciare il momento struggente del dolore, della lacerazione profonda provocata in noi dalla sua scomparsa? In noi che appassionatamente sentiamo e soffriamo l’assenza di quella irripetibile vitale presenza, con i suoi connotati concreti per sempre sottratti al nostro sguardo affettuoso, al nostro abbraccio fraterno, al nostro incontro, fonte per noi e per lui di ineffabile gioia, di accrescimento continuo del nostro meglio e dei nostri affetti piú alti. Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella fronte alta e augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori e intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma cosí carico di intima forza di persuasione, quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue minime vibrazioni.

Tutto ciò che era suo, inconfondibilmente e sensibilmente suo, ora ci attrae e ci turba quanto piú sappiamo che è per sempre scomparso con il suo corpo morto e inanime, che non si offrirà mai piú ai nostri incontri, al nostro affetto, nella sua casa, o in questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro è cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola.

E ognuno di noi, certo, in questo momento, è come sopraffatto dall’onda dei ricordi piú minuti e perciò piú struggenti, quanto piú remoti risorgono dalla nostra memoria commossa in quei particolari fuggevoli e minimi, che proprio dalla poesia del caduco, del sensibile, dell’irripetibile, traggono la loro forza emotiva piú sconvolgente e ci spingerebbero a rievocare, a recuperare quel particolare luogo di incontro, quella stanzetta della torre campanaria in cui un giorno – quel giorno lontano – parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta cittadina – quella piazzetta – in cui improvvisamente lo vedemmo illuminato dalla gioia dell’incontro inatteso, o quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con altri amici.

E ognuno di noi ripensa certo ora alla propria vicenda e al segno profondo lasciatoci dall’incontro con Capitini, fino a dover riconoscere – il caso di quanti furono giovani in anni lontani – che essa sarebbe per noi incomprensibile e non ricostruibile come essa si è svolta senza l’intervento di lui, senza la sua parola illuminante, senza i problemi che lui ci aiutò ad impostare e a chiarire, spesso contribuendo a decisive svolte nella nostra formazione e nella nostra vita intellettuale, morale, politica.

Ma appunto proprio da questo, dalla considerazione dell’immenso debito contratto con lui, dalla nostra gratitudine e riconoscenza per quanto, con generosità e disponibilità inesauribile, egli ci ha dato, veniamo riportati – al di là del nostro dolore che sappiamo inesauribile e pronto a risorgere ogni volta che ci colpirà un’immagine, un’eco, una labile traccia della sua per sempre scomparsa consistenza concreta – a quel momento ulteriore della nostra unione con lui, che in occasione della sua morte, e soprattutto dalle sue parole e dalle sue opere abbiamo appreso a considerare come l’apertura del «muro del pianto», della buia barriera della morte.

Perché, qualunque siano attualmente le nostre diverse prospettive ideologiche, esistenziali, religiose o non religiose (e cosí, coerentemente, pratiche e politiche), una cosa abbiamo tutti, credo, da lui imparata: la scontentezza profonda della realtà a tutti i suoi livelli, la certezza dei suoi limiti e dei suoi errori profondi, la volontà di trasformarla, di aprirla, di liberarla.

È qui che il ricordo e il dolore si tramutano in una tensione che ci unisce con Aldo nella sua piú vera presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella storia, e ci riempie di un sentimento e di una volontà quale egli ci chiede e ci comanda con tutta la sua vita e la sua opera piú persuasa di combattere per una verità non immobile e ferma, ma profonda e attiva, concretata in quella prassi conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi giorni, parlando con me, l’assoluto primato.

Il morto, il crocifisso nella realtà, come egli diceva, suggerisce infatti insieme il senso della nostra limitatezza individuale in una realtà di per sé ostile e crudele (quante volte abbiamo insieme ripetuto i versi di Montale con il loro circuito chiuso: «la vita è piú vana che crudele, piú crudele che vana!») e la nostra possibilità o almeno il nostro dovere di tentare di spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la realtà, dalla società ingiusta e feroce alla natura indifferente alla sorte dei singoli e al loro dolore. Lí è il punto in cui convergono tutte le folte componenti del pensiero originalissimo di Capitini: il tu e il tu-tutti, il potere dal basso e di tutti, la nonviolenza, l’apertura e l’aggiunta religiosa. Lí convergono in una profonda spinta rinnovatrice le idee, le intuizioni (tese da una forza espressiva che tocca spesso la poesia), gli atteggiamenti pratici di Capitini.

Non accettare nessuna ingiustizia e sopraffazione politica e sociale, non accettare la legge egoistica del puro utile, non accettare la realtà naturale grezza e sorda, e opporre a tutto ciò una volontà persuasa del valore dell’uomo e delle sue forze solidali e arricchite dalla «compresenza» attiva dei vivi e dei morti, tutte immesse a forzare e aprire i limiti della realtà verso una società e una realtà resa liberata e fraterna anzitutto dall’amore e dalla rinuncia alla soppressione fisica dell’avversario e del dissenziente, sempre persuasibile e recuperabile nel suo meglio, mai cancellabile con la violenza.

Di fronte a questo sforzo consapevole e ai modi stessi della sua attuazione e della sua configurazione precisa alcuni di noi possono essere anche dissenzienti o diversamente disposti e operanti, ma nessuno che abbia compreso l’enorme portata della lezione di Capitini può sfuggire a questo nodo centrale del suo pensiero, nessuno può esimersi di dare ad esso adesione o risposta, tanto esso è stringente, perentorio, come perentoria è insieme la lezione di intransigenza morale e intellettuale di Capitini, la sua netta distinzione di valore e disvalore, la severità del suo stesso amore, pur cosí illimitatamente aperto e persuaso del valore implicito in ogni essere umano.

Proprio per questo amore aperto e severo, questa nostra unione in lui e con lui – in presenza della sua morte – non può lasciarci cosí come siamo di fronte alle cose e di fronte a noi stessi, non può non tradursi in un impegno di suprema lealtà, sincerità, volontà di trasformazione.

Capitini fu un vero rivoluzionario nel senso piú profondo di questa grande parola: lo fu, sin dalla sua strenua opposizione al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà e della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale e astratto di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza sopraffattrice, in sede politica e religiosa, cosí come di fronte ad ogni tipo di ordine e autorità dogmatica e ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di crudeltà. Questo non dobbiamo dimenticare, facendo di lui un sognatore ingenuo e innocuo, e sfuggendo cosí alle nostre stesse responsabilità piú intere e rifugiandoci nel nostro cerchio individualistico o nelle nostre abitudini e convenzioni non soggette ad una continua critica e volontà rinnovatrice.

Forse non a tutti noi si aprirà il regno luminoso della realtà liberata e fraterna nei modi precisi in cui Capitini la concepiva e la promuoveva, ma ad esso dobbiamo pur tendere con appassionata energia.

Solo cosí il nostro compianto per la tua scomparsa, carissimo, fraterno, indimenticabile amico, diviene concreto ringraziamento e risposta alla tua voce piú profonda: solo cosí non ti lasceremo ombra fra le ombre o spoglia inerte e consunta negli oscuri silenzi della tomba e proseguiremo insieme, severamente rasserenati – come tu ci hai voluto – nel nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo nel nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come tu ci hai chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo esempio.